Capitolo N°30: «Le piume e le penne delle galline di Perpetua»

Arrivati al castello, Perpetua, Agnese e Don Abbondio, notano un gran numero di truppe, a servizio dell’Innominato. Il curato in un primo momento a subito paura di questo gran numero di soldati. Tuttavia questi ultimi non assumono atteggiamenti di ostilità nei confronti dei tre, i quali entrano nel castello. Il prete e le due donne saranno gli ultimi a lasciare il castello dopo il termine della minaccia. Perpetua e Don Abbondio, al loro ritorno a casa trovano un’amara sorpresa, la loro casa era stata saccheggiata e i loro beni erano stati scovati.
Luoghi citati nel capitolo:
Castello dell’innominato:
dall'inizio si presenta come un castello truce e sinistro, specchio fedele della personalità del signore che vi risiede. Infatti sorge in cima a un'erta collina al centro di una valle "angusta e uggiosa" che è a cavallo del confine dei due stati, accessibile solo attraverso un sentiero tortuoso che si inerpica verso l'alto e che è dominato dagli occupanti del castello, che sono dunque al riparo dall'assalto di qualunque nemico; il castello è come un nido di aquile in cui l'innominato non ha nessuno al di sopra di sé e da dove può dominare anche fisicamente su tutto il territorio circostante, di cui egli è considerato l'assoluto padrone. Il castello dell’innominato era a cavaliere a una valle angusta e uggiosa, sulla cima d’un poggio che sporge in fuori da un’aspra giogaia di monti Dall’alto del castellaccio, come l’aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all’intorno tutto lo spazio dove piede d’uomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto.
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Agnese fece posare i fagotti in un canto del cortiletto, ch’era rimasto il luogo più pulito della casa; si mise poi a spazzarla, a raccogliere e a rigovernare quella poca roba che le avevan lasciata; fece venire un legnaiolo e un fabbro, per riparare i guasti più grossi, e guardando poi, capo per capo, la biancheria regalata, e contando que’ nuovi ruspi, diceva tra sé: “son caduta in piedi; sia ringraziato Iddio e la Madonna e quel buon signore: posso proprio dire d’esser caduta in piedi”.
Casa di Don Abbondio:
Don Abbondio e Perpetua trovano a loro volta la devastazione nella loro casa, con il pavimento insozzato dal sudiciume dei soldati, le stoviglie in pezzi, nel camino i segni del bivacco e i rimasugli di varie suppellettili bruciate, mentre coi carboni spenti i lanzichenecchi si sono divertiti a disegnare sul muro delle grottesche caricature di preti cattolici. Entrano in casa, senza aiuto di chiavi; ogni passo che fanno nell’andito, senton crescere un tanfo, un veleno, una peste, che li respinge indietro. Non c’era nulla d’intero; ma avanzi e frammenti di quel che c’era stato, lì e altrove, se ne vedeva in ogni canto: piume e penne delle galline di Perpetua, pezzi di biancheria, fogli de’ calendari di don Abbondio, cocci di pentole e di piatti; tutto insieme o sparpagliato. Solo nel focolare si potevan vedere i segni d’un vasto saccheggio accozzati insieme, come molte idee sottintese, in un periodo steso da un uomo di garbo. C’era, dico, un rimasuglio di tizzi e tizzoni spenti, i quali mostravano d’essere stati, un bracciolo di seggiola, un piede di tavola, uno sportello d’armadio, una panca di letto, una doga della botticina, dove ci stava il vino che rimetteva lo stomaco a don Abbondio. Il resto era cenere e carboni; e con que’ carboni stessi, i guastatori, per ristoro, avevano scarabocchiati i muri di figuracce, ingegnandosi, con certe berrettine o con certe cheriche, e con certe larghe facciole [19], di farne de’ preti, e mettendo studio a farli orribili e ridicoli: intento che, per verità, non poteva andar fallito a tali artisti.